Luigia Gariboldi aveva 16 anni quando ha scelto di essere un promotore sociale delle Acli. Adesso è in pensione e continua, insieme a suo marito, ad assistere gli utenti del Patronato Acli di Milano. Impossibile contare il numero di persone e pratiche seguite. Da due anni e mezzo ha accettato un’altra sfida: entrare in carcere e portare lì la sua esperienza, a servizio dei reclusi che necessitano di assistenza previdenziale. Ogni settimana va nella casa di reclusione di Opera, la più grande in Italia, e si occupa di domande per il riconoscimento di invalidità civile, assegni familiari, istanze per il riconoscimento dei requisiti ridotti per disoccupazione.
Quello di Luigia non è un caso isolato: sono una trentina su tutto il territorio nazionale le sedi provinciali del Patronato Acli che entrano con frequenza settimanale, quindicinale o mensile, in istituti di detenzione e si occupano di richieste di riconoscimento di invalidità, assegni ai nuclei familiari, pensioni, assegni sociali, richieste di indennità di disoccupazioni e pratiche varie per gli immigrati.
Al Nord come al Sud. A Napoli, il Patronato Acli entra nella casa circondariale di Poggioreale da 40 anni e da un paio ha ripreso anche il servizio nell’Opg, l’ospedale psichiatrico giudiziario. Un totale di quasi 1000 detenuti. I due istituti sono molto diversi fra loro e se nell’Opg le pratiche che il Patronato lavora sono soprattutto legate all’infermità e non esiste un contatto diretto con i detenuti, a Poggioreale l’impegno è diretto. “Lo spettro delle attività svolte è molto ampio: Invalidità, previdenza, disoccupazione ‒ spiega il direttore del Patronato Acli di Napoli,Pasquale De Dilectis, che da 40 anni è presente nella casa circondariale ‒. Dall’esterno è difficile capire quali sia
no i problemi di queste persone: perdono contatto con la propria vita, con l’esterno, si dimenticano di avere dei diritti. Abbiamo a che fare con molti giovani, la media dell’età delle nostre richieste per invalidità civile è di 45 anni, molti sono malati e soffrono di patologie legate alla detenzione”.Non solo pratiche. A volte gli operatori raccolgono richieste personali e delicate che non possono soddisfare e che consegnano al personale incaricato. “Ci hanno chiesto un paio di volte di portare messaggi privati fuori dal carcere e di farli avere alle famiglie ‒ spiega ancora il direttore De Dilectis ‒. Noi naturalmente non possiamo farlo e giriamo la richiesta al personale dell’area pedagogica dell’istituto. Queste richieste raccontano la costante attenzione dei detenuti alle proprie famiglie: ‘mi saluti mia moglie’ oppure ‘Ha visto mio figlio? È cresciuto?’. Niente di più facile che un detenuto ti chieda dell’ultimo incontro avuto con la sua famiglia per questioni relative alla pratica in corso. Il pensiero è sempre là!”.
“Sono persone sole da cui le famiglie prendono le distanze. In carcere i pensieri sono tanti. All’inizio le famiglie vanno a trovarli, poi sempre meno, alla fine quasi li disconoscono e tutto va a rotoli. Chi sta fuori ‒ conclude ‒ vuole rifarsi una vita, chi sta dentro resta invece legato al passato, al ricordo dei figli e cerca nei vecchi affetti un motivo per andare avanti mentre subentra la rassegnazione”.